Cerca nel blog

venerdì 14 ottobre 2011

La 4B come Chagall, un'iniziativa che fa Epoca

La 4B
Cerri 
La copertina di Epoca

Rosa Cugini



La tavola paragonata a Chagall



















































Non c’è che dire: è un’iniziativa che fa Epoca. E’ il giugno del 1966 quando la 4B si ritaglia uno spazio consistente sull’omonimo settimanale fondato da Arnoldo Mondadori e diretto a quel tempo da Nando Sampietro. Inequivocabile il titolo: “Dopo Doré e Dalì, la Quarta B”. E’ la classe della maestra Rosa Cugini. Il magazine, che in prima pagina ritrae Sophia Loren - la donna più bella del mondo secondo i fotografi americani -, apre con la morte del chirurgo Mario Dogliotti, pubblica le prime fotografie della Luna scattate dalla sonda Surveyor, dà spazio alle elezioni amministrative in alcuni grandi centri della Penisola con al centro la serrata campagna elettorale di partiti che si chiamano ancora Dc, Pci, Pli, Psi, Msi. Poi, a pagina 56, arrivano loro, gli allievi della Cugini, immortalati da Lucio Berzoli con le tavole a colori che narrano la Divina Commedia. E’ il loro modo di rendere omaggio a Dante Alighieri nel settimo centenario della nascita (1265-1965). I redattori di Epoca si sbilanciano, elogiano i piccoli castelleonesi - in modo particolare Nadia Riboli - e, disegni alla mano, rimandano ad accostamenti arditi: “Ecco Beatrice tra nuvole di fiori - scrivono -: non ricorda Chagall?”. Così, mentre Sergio Leone sta girando il suo capolavoro per antonomasia (Il Buono, il Brutto e il Cattivo) e il presidente del Consiglio Aldo Moro cerca di far quadrare i conti attorno a sé, Castelleone ruba la scena al celebre processo alla Zanzara, il periodo degli studenti del Parini di Milano, con il seguente articolo
A Castelleone, in provincia di Cremona, è nata una singolare accademia di pittura. I futuri “maestri” non hanno ancora dieci anni, indossano un grembiule con colletto e fiocco di seta, e alternano i pennelli con le tabelline pitagoriche e le carte geografiche. Sono gli alunni della Quarta B, una classe rumorosa che qualche volta la maestra Rosa Cugini stenta a tenere a freno, ma che le dà molte soddisfazioni. Soprattutto in una materia, il disegno, la sua grande passione. La maestra non sa dipingere, anzi, come lei stessa confessa, non sa tenere una matita in mano, ma il suo insegnamento è stato efficace: in disegno tutti i suoi ragazzi rivelano sorprendenti attitudini. Poiché quest’anno cade il settimo centenario dalla nascita di dante, hanno voluto rendere anche loro un omaggio al Poeta. Hanno preso la Divina Commedia, un foglio di carta ciascuno e la scatola dei colori: ne sono risultate 37 tavole in cui la freschezza e la spontaneità dell’invenzione si uniscono a una stupefacente abilità all’accostamento dei colori e nella composizione.

sabato 24 settembre 2011

"Santuario, le apparizioni un'invenzione del Fiammeni". La ricerca di Zanardi

Quello pubblicato di seguito è un articolo a firma Claudio Zanardi comparso sul quotidiano La Cronaca di Cremona del 14 settembre 2011. Lo riporto per due ragioni: si tratta di una ricerca 'nuova' che riguarda Castelleone e nel contempo è destinata a far discutere. Di ciò l'isolasonante prende atto.


 Le luci si sono spente. Anche il quinto centenario, 1511-2011, delle apparizioni di Santa Maria  della Misericordia di Castelleone è da ritenersi archiviato. Quindi posso scrivere questo articolo che, se fosse uscito prima, magari poteva ‘disturbare’; avevo comunque anticipato l’argomento nella pubblicazione sulle immagini del Santuario.
  Una premessa: la mia è esclusivamente una ricerca storica e non intendo toccare altri campi se non la storia di una Comunità.   
  Entriamo subito e senza fronzoli nell’argomento: la vicenda delle apparizioni della Madonna della Misericordia è tutta inventata. Per essere più preciso: l’anno dell’evento, la persona che disse d’aver visto la Vergine, l’evolversi delle apparizioni, e il resto, è tutta invenzione di don Clemente Fiammeni
  Non vi erano pertanto centenari da festeggiare, e l’avvenimento è da annoverare fra le bufale storiche che sommergono il borgo.  
  Innanzi tutto, e per amor del vero, il Fiammeni non ha mai affermato che la storia di Domenica Zanenga, che vide la Vergine per quattro volte, una al giorno a partire dall’11 maggio 1511, fosse vera, anzi ha detto esplicitamente che l’aveva inventata. Coloro che la credettero veritiera sono stati i posteri, anche se l’autore ci mise lo zampino per intorbidire le acque. 
  La vicenda delle apparizioni compare per la prima volta sull’Historia in versi della chiesa di Santa Maria della Misericordia, scritta da don Clemente nel 1630 e stampata a Cremona dagli Zanni nel 1633. Lo stesso argomento venne poi dall’autore messo in prosa, e pubblicato nel 1642 dai medesimi stampatori. Nella terza pagina di questo secondo libretto, allorquando si rivolge “Al pio Lettore”, afferma che ha ricavato le notizie dal nostro archivio, da documenti, ed altro: “e finalmente da una pia, e santa probabiltade. nel 1633 feci stampare le dette cose in verso volgare per mia devozione, gusto e ricreazione nel stare retirato per la peste del 1630”. Quindi, mentre era rifugiato in qualche posto isolato per sfuggire il contagio, ha scritto una pia e santa “probabiltade”, probabilità, cioè una “narrazione inventata, contenente una teoria ritenuta vicina al vero”. Perciò escogitò una storia che, a suo giudizio, poteva avvicinarsi alla verità, e la trasformò in poema per poi riprenderla in prosa. Le  notizie di archivio, e documentate, che cita, sono quelle relative alla costruzione della chiesa, all’avvento degli Agostiniani, alla statua della Vergine, eccetera, la probabiltade riguarda le apparizioni.   
  Se inventò la vicenda è evidente che a monte non vi erano notizie in merito: se ve ne fossero state avrebbe messo in rima quelle, non per la Verità, virtù della quale era privo, ma perché stava invocando la Vergine affinché lo salvasse dalla peste, e quindi non avrebbe osato mentire. 
  A che titolo allora venne eretto il Santuario? È ancora il Fiammeni a dirlo nelle righe iniziali del  poema: “Un bel desio Signor m’ingombra il petto / Di cantar l’opre, e l’alta meraviglia, / Che al castel nostro con cortese affetto / Del’Ciel la Donna, e del suo figlio figlia / Mostrò, quando il bel tempio gli fu eretto, / Quanto un lontan, ne fosse à molte miglia;”.
  In questi pochi versi ci spiega ogni cosa: innanzi tutto che narrerà i miracoli, “l’opre”, che avvennero “quando il bel tempio gli fu eretto”, e quindi non vi sono apparizioni ma fu la costruzione del nuovo Santuario che ‘provocò’ i miracoli della Donna del cielo; poi, che la chiesa era in sostituzione di un’altra più lontana di “molte miglia”.
  Questo era l’inizio, poi la vena poetica lo porterà ad inventare una Domenica visionaria con quel che segue. 
  Nel 1617 il Santuario era stato donato agli Agostiniani ed il popolo si era distaccato da quella chiesa. Quando nel 1781 il sacro luogo ritornò alla Comunità, i castelleonesi, che non avevano altre versioni dell’accaduto, presero per oro colato le parole del Fiammeni, ed è pertanto dalla fine del settecento che si cominciarono a festeggiare regolarmente le apparizioni. 
  Superfluo dire che non vi è nessuna documentazione che parli di Domenica Zanenga, né delle sue visioni, né del loro evolversi, e neppure la Chiesa non si è mai pronunciata in merito. 
  Le due opere del Fiammeni prima menzionate, riguardanti l’avvenimento, che dovrebbero essere identiche salvo il fatto che una è in versi e l’altra in prosa, in realtà non lo sono affatto, e nel 1642 il Don aggiusta le notizie del 1633. Circa le persone, prima non conosce i loro nomi, e di colei che vide la Vergine così scrive: “Chi Cuggia la diceva, e Cominetta,  /  Chi Zanenga, e Melesa, non sò, come  /  Altri poi la chiamasser Zanenghetta”; a seguire ‘crede’ che il marito morto si chiamasse Bertol Camerino, ed i figli, “come hò sentito” dire, fossero Lorenzo e Comino. 
  In seguito, cioè nel 1642, trova casa a tutti quei nomi ripartendoli sui genitori: Domenica era figlia di Antonio Zanengo detto Meleso e di Orsola Cominetta detta Cuggia. Della miracolata, della quale neppure sapeva il cognome, ora ci propone persino l’anno della nascita, il 1461, e a suo modo il mese: “in circa di Settembre”. I registri delle nascite e delle morti ancora non c’erano e lui ci sguazza. Nel poema scrive poi che il secondo giorno la Vergine storpia il braccio a Domenica, e gli indebolisce il fianco, in prosa è offeso solo il braccio. Poi, dopo che il prete che la tocca resta col braccio offeso, Domenica, alla quale la Madonna aveva tolto la parola: “la voce / Alza ella, che fin hor è stata muta”, nell’opera in prosa gli sembra fuori tempo il miracolo del ritorno della voce e lo sposta al giorno dopo. Nel poema, sempre nel secondo giorno, va con molta gente, soprattutto donne “Che le Donne son facili al peccato, / Ma braman tosto haverlo cancellato”, mentre nella versione successiva alla vigna ci va da sola. Nel poema la Vergine gli accorcia la gamba: “ Poiché la vecchia fu dalla man sciolta / La gamba destra ritirar sentissi”, mentre nella versione successiva ritiene di storpiargli un fianco, e mi fermo per non annoiare. 
  E’ una narrazione che fa acqua da tutte le parti dove l’autore neppure si preoccupa di riprendere quanto ha scritto in precedenza. Non credibile neppure l’antefatto, quando, per giustificare la presenza di Domenica in quel luogo, le fa affittare una vigna, con tutti i lavori di zappa e badile, di concimazione, di orari d’acqua, di potatura, che questa donnetta doveva sobbarcarsi a un chilometro e mezzo dal paese, ma trattandosi di una probabiltade tutto è consentito.
  Quindi il Santuario sostituiva una vecchia chiesa, ma questa dove si trovava? A grandi linee ce lo dice il notaio Giacomo Arnolfi nell’atto 25 giugno 1512 reperibile presso l’Archivio di Stato di Cremona, filza unica 421: si tratta del testamento di Giacomo Madi il quale lascia lire 4 alla chiesa di Santa Maria della Misericordia in contrada Gramignana, ed un pallio alla chiesa di Santa Maria della Stella. Ricordo che la costruzione dell’attuale Santuario iniziò nel 1513 e che la Gramignana è una grande cascina, o meglio due, poste non lontano dal confine con Madignano. 
  A quel tempo per contrada si intendeva territorio, e ricordo che la chiesetta di quelle cascine, ora vergognosamente in stato di abbandono, è dedicata a San Giovanni Decollato.
  La ragione per la quale la vecchia chiesa, di certo dedicata alla Vergine, venne rifatta, può essere la più semplice: era malconcia e andava ricostruita, però è probabile che i fondi si sarebbero trovati solo edificandola più vicino al paese, e così venne fatto utilizzando un pezzo di terra di proprietà della parrocchia. Ci doveva comunque essere una spinta religiosa, magari quella Madonna aveva fama di proteggere dalle epidemie, o aveva appena salvato la Comunità da qualche calamità, oppure si era dimostrata prodiga di miracoli. 
  Donazioni ne troviamo anche in altri testamenti: notaio Giovanni Francesco Arnolfi, filza unica 590, il 6 settembre 1513 Gianmarco Clerici lascia, per la costruzione del tempio 50 pertiche di terra in comune di San Bassano, e, allo stesso scopo, Facino de Olmo, in data 16 dello stesso mese, lascia un migliaio di pietre, donazione questa allora normale perché i preventivi ed i pagamenti si facevano per ogni mille mattoni messi in opera.   
  Ora nel Santuario c’è una Madonna col Bimbo opera di Paolo Maltempo da Cremona, arrivata, sembra, nel 1560; può darsi che fino a questa data ci sia stato il simulacro portato dalla vecchia chiesa, e la nuova immagine ricalchi l’antica. Se così fosse, neppure in precedenza la Madonna era nata ‘della Misericordia’ perché questa veniva effigiata diversamente, senza figlio e nell’atto di accogliere sotto il suo manto i fedeli per proteggerli.       
  Un’altra prova della veridicità della tesi esposta è la lapide, in lingua latina, che si trova dietro l’altare del Santuario: “Sotto questa pietra è sepolta la donna alla quale un tempo la Madre di Dio concesse di essere vista ed anche di parlargli. 1520”; poi sta scritto che nel 1810 e 1937 la sepoltura venne visitata. 
  La defunta l’hanno sempre spacciata per Domenica Zanenga, iniziando dal Fiammeni, però, anche questo nella probabiltade ci può stare, così come gli atti notarili che inventa.  
  Nel cinquecento le chiese abbondavano di lapidi di marmo a ricordo dei trapassati e riportano tutte, in modo leggermente diverso l’una dall’altra, il nome e la data di morte, e a volte anche gli anni del defunto. Nel nostro caso non c’è nulla, salvo l’anno di realizzazione della lapide, mentre, data l’importanza dell’estinta, come accadde in simili casi, ci doveva essere scritto parecchio più delle altre. La risposta al totale silenzio è una soltanto, inoppugnabile: non c’è nessuna indicazione perché non vi erano dati da mettere. Evidentemente l’antica chiesa ricordava un’apparizione e custodiva le ossa di colei che aveva detto d’aver visto la Madonna. Nel 1520, anno della posa della lapide che il Fiammeni e proseliti indicano come quello della morte di Domenica, portarono le ossa, che si trovavano nella vecchia chiesa forse già caduta, nel nuovo tempio: a causa dei secoli trascorsi, della miracolata non si sapeva più neppure il nome, e sul marmo nulla venne scritto. 
  Fu di certo questa lapide l’inizio di tutto: se non ci fosse stata, il Santuario sarebbe come la vicina Santa Maria Bressanoro, una chiesa come tante costruita per devozione e null’altro, ma quella scritta solleticò la fantasia del Fiammeni che inventò la storia. 
  Riassumendo: una donna che asserì d’aver visto la Vergine c’è stata, però non si tratta di Domenica, né l’apparizione avvenne dove c’è il Santuario, e neppure il 1511 è l’anno dell’evento che è antecedente di secoli, e gli asseriti miracoli avvennero non per le apparizioni, ma fu un ‘ringraziamento’ della Donna del cielo per avergli eretto un Santuario. 
  Il tempo, coadiuvato dagli uomini, ha cancellato ogni traccia di quanto realmente avvenne. 
  Unica cosa che ritengo veritiera è il giorno, l’11 maggio: tutte le chiese avevano ed  ancora hanno il loro giorno di festa, e quello del vecchio altare rimase.        
  Per non pentirmi riporto la leggenda di Ripalta Arpina. Si tratta del racconto più radicato nel ricordo dei vecchi che nei tanti trascorsi decenni mi sia capitato d’ascoltare. La narrazione non era mai uguale, ma aveva dei punti in comune: la Madonna della Misericordia era apparsa in altro luogo, non quello dove ora si dice, e la sua statua, posta in una chiesetta, poi crollata, guardava verso Ripalta. Nel nuovo Santuario la statua venne collocata rivolta da un’altra parte, però per tre volte la trovarono girata verso quel paese. Il commento finale dei racconti, seppure poco chiaro ed espresso in forme diverse, si assomigliava: la Madonna protegge loro e non i castelleonesi. 
  Ricordo che i due paesi si trovavano in Stati diversi: Castelleone nel Ducato di Milano e gli arpini sotto la Repubblica di Venezia, e che i confini erano spesso controversi.
  La verità è però a portata di mano. Nel 1810 le ossa di colei che disse d’aver visto la Vergine sono state collocate in una cassetta di rovere, poi murata, e successivamente riviste e nuovamente murate nel 1937. Con le moderne tecniche si può risalire al tempo della morte ed agli anni che aveva la defunta, e il dilemma, per chi l’avesse, è risolto. 
  Se poi nel 1810 avessero ‘toppato’ e nella cassetta venissero rinvenute le ossa di un frate sepolto  secoli dopo, pazienza: non sempre chi cerca trova (quel che cerca).


CLAUDIO ZANARDI (La Cronaca di Cremona, 14 settembre 2011)

lunedì 5 settembre 2011

Bartali, Coppi e la sfida di Guerrino ai giganti del pedale

Bartali davanti a Coppi in piazza Castello

La Germania nazista si prepara a sferrare l’attacco a San Pietroburgo, mentre nell’Africa Settentrionale è nuovamente Tobruk a finire sotto il fuoco dell’artiglieria pesante. Incurante dello spettrale incedere del conflitto, il trimotore di Goebbels atterra placidamente nei pressi del Lido di Venezia, consentendo al Ministro della Propaganda del Reich di partecipare alla mostra internazionale del cinema. Ad accompagnarlo c’è Alessandro Pavolini, da quasi due anni alla testa del Minculpop.
E’ il settembre del 1941. In un’Italia non ancora in ginocchio ma già sulla strada del declino si cerca di vivere una normalità ormai da tempo sfuggita di mano. Così è anche nel ciclismo. Dopo l’esito della Tre Valli Varesine favorevole a Fausto Coppi, suo “vice” alla Legnano, il capitano Gino Bartali prepara il riscatto sempre sulle strade lombarde. All’ombra dei grandi campioni stavolta pedala anche Guerrino Valesi. Il castelleonese dal mese di maggio compare nell’elenco dei promossi al rango di dilettanti scelti. Una successiva delibera della federazione nazionale del 12 agosto autorizza lui e gli altri giovani promettenti a correre al fianco dei più blasonati professionisti. La decisione, come si legge in una nota pubblicata sul quotidiano La Stampa del giorno successivo, è presa dalla Fci “in considerazione dell’attuale stato di emergenza”. In altre parole, con l’Italia ormai coinvolta a pieno titolo nelle operazioni belliche non resta che rivolgersi al solo bacino nazionale nel tentativo di allestire competizioni sportive di un certo livello. Fra i dilettanti scelti che da quel momento potranno sfidare i campionissimi ci sono anche Vito Ortelli, Alfredo Martini e i cremonesi Gino Cappelletti e Silvio Pedroni, questi ultimi “vecchi” compagni di squadra di Valesi nella Fantarelli.
Guerrino ha la sua grande occasione il 7 settembre. A Pavia si corre la seconda edizione della Coppa Pietro Marin. La gara, nata per iniziativa del fascio, è intitolata ad un ex ciclista caduto sul fronte africano. Bartali, capitano dei rossoverdi guidati dall’avocatt Pavesi, è il numero 9 nell’elenco degli iscritti; immediatamente dopo compaiono i nomi di Fausto Coppi da Castellania e Pierino Favalli da Zanengo, terzo uomo della Legnano. Quello di Valesi è invece riportato alla casella numero 62. La domenica, di buonora, prendono il via in 73. Il percorso, nella sua prima parte, non presenta asperità. Si dovranno attendere le colline già cantate da Plinio il Vecchio, adorne di vigneti e grappoli d’uva, per vedere il profilo altimetrico mutare in un’alternanza di rampe verticali da scalare e rapidi budelli da ridiscendere con il cuore in gola. Un profilo nervoso e impolverato, giusto ciò che serve a segnare il volto della gara. Bartali, che non vince dal "Lombardia" dell’anno precedente e sempre meno sopporta l’ingombrante convivenza con Coppi, pedala nelle prime posizioni del gruppo, poco disposto a concedere spazio agli avventurieri di giornata. Quando a Borgo San Siro Remo Cerasa inscena la prima fuga, il toscano manda subito il fido Favalli a seguirne le tracce. Con il cremonese escono dal gruppo anche Volpi, Godio e Gosi. Il quintetto pedala in armonia sino a Vigevano, quando Gosi molla la presa vittima di una foratura. La presenza di Favalli fra i fuggitivi rassicura Bartali, tanto che dietro l’andatura si addolcisce. Solo il giovane messinese Corrieri prova a ricucire, ma a Voghera il ritardo degli inseguitori è di 8 minuti. Valesi è con loro, al sicuro nella pancia del gruppo. Mangia polvere con la faccia di chi non vuol mollare un solo centimetro. Di lì a poco anche Godio vede il suo tubolare afflosciarsi e tira il freno. Volpi, visibilmente affaticato e alle prese con una gamba dolorante saluta la compagnia all’altezza di Varzi e prosegue a ritmo moderato. Favalli e Cerasa attaccano l’ascesa che conduce a Pietragavina in solitudine. Ma intanto, alle loro spalle, Bartali ha già dato ordine ai Legnano di scatenare la battaglia. Favalli scollina davanti a tutti, seguito come un’ombra da Cerasa. Guerrino tiene invece il passo dei campionissimi, che a Pietragavina giungono con 6 minuti di ritardo. Per il castelleonese sembra una giornata da incorniciare. A meno di 90 chilometri dal traguardo è ancora con Bartali e Coppi. Ma lungo la discesa buca per la prima volta. Accosta, cambia il tubolare, riparte. Il gruppo, però, viaggia ormai a velocità elevata rendendo impossibile il suo ricongiungimento. Anche Favalli è rallentato da una foratura. Cerasa riesce così a passare in testa sul Carmine. E’ a quel punto che entrano in scena Coppi e Bartali. L’Airone aziona le sue lunghe leve e piazza lo scatto in discesa; l’esperto capitano, che non ci sta a perdere ancora, aggancia la ruota e lo segue pennellando ogni curva. I due volano, mentre alle loro spalle i Bianchi cercano invano di organizzare l’inseguimento. Favalli è risucchiato in breve tempo, il sogno di Cerasa tramonta prima di Casteggio. Bartali e Coppi restano senza rivali, incrementano il loro vantaggio scalando d’un fiato le rampe che anticipano Canneto Pavese e planano come aquile sulla città. Non c’è sprint in piazza Castello: Bartali, il capitano, fa valere i propri gradi e si prende il successo. Coppi, leggermente ingobbito sul manubrio e con la sua consuenta smorfia dipinta sul volto, lo scorta al traguardo. Ricci chiude il podio anticipando, cinque minuti più tardi, Mollo e Cottur. Fra i comuni mortali è lui il vincitore. Altri cinque minuti e anche Guerrino Valesi dà l’ultimo colpo di pedale di una Coppa Marin corsa sulla distanza di 236 chilometri. E’ con ciò che rimane del gruppo, in ventitreesima posizione, quinto dei dilettanti scelti alle spalle di Motta, Giacometti, Lelli e Strukul. Chiude a testa alta nonostante due forature. Il 10 settembre il quotidiano il Littoriale scriverà: ““Giacometti, Lelli, Valesi hanno egualmente portato a termine la gara nella quale si sono distinti il seregnese Motta ed il sorianese Strukul. Tutti i dilettanti scelti che hanno preso parte alla Coppa Marin meritano dunque la prova d’appello”. Una rivincita che in realtà non ci sarà, perché il destino per Valesi ha scelto diversamente.

giovedì 30 giugno 2011

Angelo Barnabò, profilo di un medico garibaldino

Angelo Barnabò
Un medico al seguito del Generale Garibaldi. La figura di Angelo Barnabò, dottore in medicina a 24 anni con laurea conseguita a Pavia nell’aprile del 1858, volontario nei Cacciatori delle Alpi durante la campagna del 1859 per l’Indipendenza dell’Italia e successivamente ufficiale medico del Regio Esercito, in servizio sino all’agosto del 1891, è forse a torto una delle figure castelleonesi del Risorgimento meno celebrate. Basti pensare, ad esempio, che il suo nome non compare fra i decorati della Campagna del ’59, quando invece, in veste di medico, partecipò sia alla Seconda sia alla Terza Guerra d’Indipendenza. Gli elementi per tracciare una biografia completa di Barnabò non mancano, a cominciare dal periodo del suo arruolamento volontario nell’esercito garibaldino che costrinse, con l’ausilio delle truppe franco-piemontesi, gli austriaci alla ritirata nel ’59, per proseguire poi con le tappe di una carriera medico-militare che l’hanno portato a dirigere l’ospedale di Livorno e a veder riconosciuto il proprio impegno in ambito professionale con una medaglia di bronzo al valore, guadagnata sul campo grazie alla febbrile attività svolta al servizio della comunità castelleonese durante l’epidemia di colera scoppiata nel 1867. Preziosi documenti che lo riguardano sono conservati nell’archivio privato della famiglia Barnabò. E’ lì che si trova anche una lettera particolarmente significativa del periodo della militanza garibaldina, trascorsa fra la Valtellina e l’alto bresciano. Si tratta della missiva che gli fu inviata dal capo medico dei Cacciatori delle Alpi, il maggiore Agostino Bertani, braccio destro del generale Garibaldi e organizzatore dell’ambulanza, scritta nel momento delle sue dimissioni dal Corpo (Bertani lasciò per organizzare una nuova insurrezione nell’Italia centrale). Un documento senz’altro inedito, che attesta il ruolo per nulla secondario del giovane ufficiale medico castelleonese negli avvenimenti che risalgono all’estate del ’59. Arruolatosi sul finire di giugno, entrò subito a far parte del servizio sanitario anche grazie ad una lettera del direttore del nostro ospedale, Girolamo Lauro, che attestava l’idoneità alla prestazione “della sua opera a beneficio dell’armata”. Spedito in un primo momento al seguito del battaglione detto dei Valtellinesi, Barnabò fu scelto di lì a poche settimane da Bertani per dirigere l’ospedale militare di Grosio. E’ in quel contesto che cominciò a stringere rapporti con altre figure di spicco dell’ambulanza garibaldina come Malachia De Cristoforis - milanese, futuro deputato e direttore degli Annali universali di medicina - e Tebaldo Rosati, medico toscano che arrivò da Parigi per sostenere la causa dell’indipendenza italiana e che negli anni a venire ricoprirà ruoli direttivi presso l’ospedale di Firenze. Ma è con il suo diretto superiore Bertani, mazziniano e veterano delle Cinque Giornate, che il legame si fece sempre più saldo. A testimoniarlo è proprio la lettera di commiato redatta dal futuro deputato milanese della Sinistra storica, che il 26 agosto 1859 da Bergamo scrisse al suo giovane medico: “Sig. Dottore, abbandonando il mio posto per volontaria ed accettata dimissione, innanzi ch’io mi stacchi dal Corpo cui appartenni con orgogliosa soddisfazione mi è caro debito l’esprimere a tutti i collega della Brigata la mia riconoscenza per l’aiuto che mi porsero nel disimpegno delle faccende sanitarie. Per quanto vale il mio encomio, mi è carissimo il proclamarlo qui altamente per tutto il personale sanitario dei Cacciatori delle Alpi il quale seppe meritarsi la stima e la riconoscenza nonché dei commilitoni, ripetutamente della superiorità; e lo dico apertamente, io riconosco esclusivamente nella sua devozione intelligenza ed attività tutto il merito che il generale Garibaldi propose ed il Re volle onorare in chi ebbe la fortuna di essere capo di ste brillante stuolo di medici. Al ricordo delle mancanze mie (illeggibile) indulgente la di lei benevolenza e mi tenga conto della buona volontà, delle difficoltà annesse ad un servizio tutto nuovo per (...), creato cammin facendo in momenti che Ella ben conosce come fossero scabrosi per tutti noi. (...) Lieto di chiamarmi di Lei compagno d’armi fra i Cacciatori delle Alpi ho l’onore di riverirlo
il Capo Medico Maggiore A. Bertani”.
Angelo Barnabò, rientrato a Castelleone negli anni Novanta dell’Ottocento dopo essere stato in servizio a Pavia, Oneglia, Samarate, Ancona e Livorno, diventò consigliere comunale, assessore e giudice conciliatore. Morì nella sua casa di via Roma il 29 aprile 1900. Aveva 66 anni.

sabato 28 maggio 2011

Girardengo, tramonto su viale Santuario

Il vantaggio dei due salì fino a un minuto a Castelleone, dove Girardengo, che già era riuscito ad accodarsi alla fila in subbuglio, rimase tagliato fuori con la coda di essa appunto per l’acceleramento provocato dal colpo di mano di Debenne
(Giuseppe Ambrosini, La Stampa, 19 maggio 1935)

I corridori lungo Viale Santuario (Arch. Luce)
Il viale del Santuario si traveste da viale del Tramonto Anche se lui, Girardengo, cerca di sfuggire alla presa del destino nell’impari lotta che i mulini a vento, agitati dallo scandire del tempo, gli muovono contro. Il grande campione, già orfano del suo rivale di sempre – l’eterno secondo Tano Belloni da poco è sceso dal sellino - appesantito nel fisico, indebolito nei muscoli alla fine si arrende. E’ il Giro del 1935. Girardengo ormai è l’ultima icona del ciclismo pionieristico. Quello delle partenze all’alba con il fanale avvitato al manubrio che fa sembrare i corridori tanti minatori della strada. Gira è il reduce di uno sport che si è corso su percorsi impossibili. Tappe interminabili portate a termine solo dopo aver infilato nelle giberne uova sode e frittate, addentate per zittire i morsi della fame e non dar troppo retta alla fatica. Altri tempi. Lontani e, dicono loro, i pionieri, neppure troppo parenti con quelli delle moderne biciclette in voga negli anni Trenta, leggere e maneggiabili.
Costante si presenta al via della ventitreesima edizione del Giro, all’Arena, quando ha ormai varcato la soglia dei 42 anni e alle spalle si è lasciato due vittorie nella corsa rosa, sei nella Milano-Sanremo, tre nel Lombardia e un secondo posto conquistato al Mondiale del '27, corso sul circuito del Nurburgring e vinto da Binda. Si va da Milano a Cremona; 165 chilometri che si snodano fra Lecco e Bergamo, fanno breccia nel Cremasco appena oltrepassata Mozzanica, attraversano Castelleone, toccano Soresina e Casalbuttano e finiscono sul viale Trento e Trieste rinfrescato per l’occasione da Farinacci. Il pronostico della vigilia indica Learco Guerra, la Locomotiva Umana, nelle vesti di favorito; un giovanissimo Bartali già dà filo da torcere a campioni consacrati: per lui il Giro del ’35 è la prova generale verso il successo dell’anno successivo; Binda è invece all’ultimo atto di un'entusiasmante carriera. Poi ci sono i francesi, agguerriti garibaldini della bicicletta che giurano, con Archambaud e Vietto, di dare battaglia fino all’ultimo colpo di pedale. Girardengo, giunto a Milano il giorno prima della partenza in auto, si presenta indossando una maglia bianca cerchiata con il tricolore. In tasca tiene la tessera di corridore ciclista arrivata da Roma nemmeno 24 ore prima. Fra i denti stringe una busca alla maniera di Tano, che è lì a salutarlo dal bordo campo. Con il nipote Bailo, pure lui in gara, scommette che riuscirà a precederlo sul traguardo di Cremona. Intanto sorride mentre la telecamera lo immortala per il Cinegiornale dell’Istituto Luce. Il via, intorno a mezzogiorno lungo viale Monza, lo danno il federale Parenti e il Duca di Bergamo, Adalberto di Savoia-Genova. Si entra in Brianza e con lo sguardo immediatamente si puntano i sopra Lecco. A dirigere le operazioni è ancora Armando Cougnet, la grande mente del Giro. Il vento, aspro e contrario, frusta i volti dei corridori; nonostante tutto la corsa, che procede a velocità sostenuta, s’incendia. Fra i primi a dare fuoco alle polveri è Archambaud, che di lì a qualche anno (nel 1937) stabilirà il record dell’ora sull’anello del Vigorelli. Alla sua ruota si accodano e si avvicendano decine di rivali. Il vento cede il passo a temporale e scrosci di pioggia. Il sole tornerà ad accompagnare gli atleti solo al loro ritorno nella piana, in territorio cremonese. E’ un susseguirsi di colpi di mano: sulle ceneri di un tentativo andato in briciole ne rifiorisce immediatamente un altro. Girardengo, meno curvo del solito sul manubrio per via di un accenno di pancetta, resta al coperto. Poi, prima dell’ascesa che conduce ai prati di Pontida, fora. Pare essere un contrattempo da poco, invece perde tempo prezioso, si attarda nel cambio ruota e accumula secondi su secondi di ritardo. Davanti l’adrenalina del risultato fa spingere a tutta i concorrenti. Il campione si aggrappa alle due armi che ancora gli rimangono: l’inarrivabile classe e la ferrea ostinazione. Al suo fianco ci sono Cazzulani e Gerini. Ma a tirare le fila è sempre l’altro, l’indomito omino di Novi. Sembra la fine. Un giornalista al seguito si avvicina a Girardengo e gli sussurra l’entità del distacco. “Magari muoio, ma non mi ritiro”, ringhia di rimando l’idolo della folla. Comincia la fuga al contrario. Costante ha ancora voglia di mangiare polvere e la rimonta impossibile avvicina il suo malleabile confine tanto da farsi cosa concreta. Girardengo macina i chilometri e guadagna terreno. A Mozzanica vede la coda del plotone, a Crema la tocca quasi con mano. A Castelleone il ricongiungimento pare compiuto. Ma intanto, davanti, ricominciano gli scatti. L’allungo di Debenne, che si porta appresso Giacobbe, non lascia insensibili i big del momento e l’andatura si rifà vorticosa. La telecamera dell’Istituto Luce fissa nel tempo l’immagine in bianco e nero dei fuggitivi che transitano lungo viale Santuario fendendo due ali di folla. Girardengo, proprio quando assapora l’ultima delle sue memorabili imprese, imboccando il viale e volgendo le spalle alla Madonna sente le gambe farsi ghisa. E tira il freno per non andare fuori giri. Di sventolare bandiera bianca, però, nemmeno se ne parla. Il resto è cronaca. Sono in quattro a dare vita alla fuga buona. Sul traguardo di Cremona vince Vasco Bergamaschi, detto Singapore. Lui, che nelle volate ha sempre avuto il suo tallone d’Achille, vince allo sprint sotto gli occhi del conterraneo Tazio Nuvolari e posa la pietra sopra la quale costruirà l’inaspettato successo finale. Dietro il mantovano: Piemontesi, Buttafocchi e Zucchini. Gli assi sono relegati alle loro spalle. Girardengo, invece, conclude la sua fatica con oltre tre minuti di ritardo. Il nipote Bailo è con lui. Ad ogni modo la scommessa è vinta. Si ritirerà definitivamente alla quarta tappa.